28. mag, 2021

BORA DA

Avevano trascorso una giornata tranquilla: tuffi, sole e relax nel trasparente mare della Croazia, di fronte a una piccola isola con qualche vecchia casa ormai vissuta solo nel periodo vacanziero, una chiesa, un negozio di alimentari e l’ufficio postale, usato esclusivamente per il cambio in cune.

Anna e Sara come lucertole se ne stavano stese a poppa, ammaccate tra il boma e l’oblò della cucina, e cercavano di risolvere il Bartezzaghi de La Settimana enigmistica, riuscendo a malapena a compilare le soluzioni con due caselle (già quelle con tre lettere, nomi di fiumi e stati sconosciuti, erano improponibili per loro).

I rispettivi mariti tentavano di concludere qualche argomento serio, annebbiati dall’ombra delle birre e delle sigarette.

I due figli di Anna di dieci e dodici anni, si tuffavano ininterrottamente dal pozzetto di poppa: tuffo, scaletta, risalita, in posizione; tuffo, scaletta, risalita, in posizione e così via senza mai fermarsi, come rane saltatrici inseguite da serpenti.

Nel tardo pomeriggio, come di consueto, Paolo e Andrea scesero sull’isola per leggere le previsioni meteo del giorno successivo, stampate e solitamente attaccate alla porta dell’ufficio della Marina.

Quella sera, il foglio A4 ingiallito dal sole e appiccicato malamente con lo scotch sul vetro della finestra, prevedeva per i giorni successivi un vento da 20 a 40 nodi da nord-est, il che significava bora.

«Bora da!»

«Come ha detto, scusi?» si voltò Paolo verso un uomo vestito da marinaio.

«Bora da, bora da!»

Un vecchio pescatore se ne stava seduto su una panchina in pietra bianca lungo il pontile, aveva le spalle ricurve verso il mare e un’opaca chitarra tra le braccia. Teneva lo sguardo fisso sulle corde e sulle dita della mano sinistra, gli occhi erano socchiusi, infastiditi dal troppo sole e appesantiti dalle palpebre rugose, mentre con la mano destra accarezzava le corde e ne usciva il pianto di un’arpa.

Senza guardare in viso i due, li ammonì: «Bora da! Bora da!»

Aveva una maglietta sbiadita a righe bianche e blu, un paio di jeans consumati e un cappello da marinaio con la scritta Croazia sulla visiera, la pelle era color del cuoio, rugosa come un divano usato, i peli delle braccia bruciati dal sole e, quei pochi rimasti, erano bianchi e mozzati, come quelli sulle gambe che sporgevano da pantaloni troppo corti.

Paolo e Andrea, per un attimo confusi dalle sue parole, non diedero credito a quel vecchio, forse un tempo un bravo marinaio, ma ora ridotto a diventare una triste attrazione per i gitanti.

La sfrontatezza rende sicuri gli incauti e il giorno successivo, dopo un’altra giornata limpida, attraccarono vicino a un’isola e legarono la cima della barca all’anello di un gavitello, il luogo più sicuro, dopo il porto, dove ormeggiare vicino a riva: agganciata a un macigno di cemento sul fondo del mare.

Il sole caldo e l’aria ferma diedero loro la certezza che non sempre il meteo indovini le previsioni e, con tutta tranquillità, rimasero in quella insenatura tutto il giorno, decisi a trascorrervi anche la notte.

Verso sera il vento cominciò soffiare, facendosi sentire a tratti: una leggera brezza improvvisamente era una folata che sollevava gli asciugamani, poi un refolo lieve accompagnava un turbine che scuoteva il tendalino. Anche il mare si fece sentire, si mosse, mugugnò, colpì la barca che ondeggiò, scalpitò.

Verso le due di notte la barca altalenò sempre di più, sollevò in alto la prua fino alla massima tensione della cima cui era stretta, quasi volesse scappare, scalciò come un cavallo legato alla staccionata, tese la corda, ridiscese, inquieta sobbalzò per poi tentare ancora di sciogliersi, ma l’occhio di ferro cui era incatenata resistette.

La cima a prua era ben legata al gavitello, il macigno di cemento a dieci metri di profondità non si sarebbe mai sollevato, era una sicurezza per tutti i natanti. La corda, spessa almeno cinque centimetri, che fissava il macigno alla barca era collaudata negli anni. Forse troppi.

Paolo e Andrea decisero di rimanere a poppa per controllare la situazione a turno, Anna scese in cabina, sballottata tra la cucina e il divano, a controllare i ragazzi che invece stavano dormendo cullati da un mare ostile. Mentre si aggrappava agli stipiti delle porte e ai ganci degli armadietti per non cadere, si sentiva come nella giostra peggiore della sua vita e una miriade di pensieri le vennero in mente. Odiava il mare non sapeva nuotare era il primo anno che portava con sé i figli in barca lo sapeva che non doveva farlo cazzo non è possibile quante ne aveva lette di queste storie e ogni volta diceva che deficienti ecco ora i deficienti erano loro ma cosa cazzo si era fatta convincere a fare queste vacanze maledizione a lei.

I ragazzi stavano ancora dormendo e per un po’ questo la rassicurò, non voleva trasmettere loro tutte le sue fobie.

Il mare ingrossò, il vento incalzò sempre di più. La situazione era difficile, ma non pericolosa. Quel macigno di cemento non si sarebbe potuto spostare.

Verso le due di notte, per l’ennesima volta, la poppa cadde sull’acqua, rimbalzò di nuovo verso l’alto, ma questa volta con un colpo secco si liberò dal gavitello.

Una frustata brusca colpì la chiglia.

Il cavallo si era slegato dalla staccionata. La barca era libera.

Il vento spingeva al largo, ma le onde premevano verso la riva vicina.

Qualcuno gridò: «La cima! Si è rotta la cima!»

Anna immediatamente svegliò i bambini, gli infilò i giubbotti di salvataggio, allacciò gli imbraghi e agganciò i moschettoni alle maniglie del tavolino di poppa. Sapeva bene che in questi casi il pericolo maggiore era essere sbalzati fuori e sbattere sugli scogli; la soluzione migliore era rimanere legati alla barca e, anche se si fosse rovesciata, sarebbe riemersa grazie al peso del bulbo sul fondo.

Non sapeva nuotare e aveva imparato la teoria sui libri, non amava il mondo lontano dalla terraferma, ma in famiglia era l’unica e si adattava. Superava le proprie paure studiandole.

Aveva fatto molte ricerche al riguardo: principio di Archimede, lunghezza della chiglia proporzionale alla larghezza dello scafo, il teorema di Bernoulli e tante altre nozioni che in quel momento le riaffioravano alla mente per non farsi prendere dal panico.

«Dobbiamo uscire!» gridò Paolo «dobbiamo andare in mare aperto!»

Paolo accese il motore e Andrea a prua tentò di prendere il gancio del gavitello con un’altra cima. Le onde erano sempre più violente e spingevano con furia la barca verso riva, il motore non riusciva a governarla, il gavitello si allontanava, la costa si avvicinava.

Anna, Sara e i ragazzi erano immobili agganciati alle maniglie.

Nessuno parlava.

Solo i pensieri potevano riempire quel boato spaventoso, ma in quel momento la testa era bloccata dalla paura, gli occhi guardavano avanti, avanti dove non si vedeva, ma si sperava, il corpo non sentiva il freddo e l’acqua che li colpiva, tutto era teso verso un punto qualsiasi che potesse portare la quiete.

Si sentiva solamente la barca sbattere sulle onde. Le sartie urlavano al vento e un pezzetto di fiocco srotolato schiaffeggiava con violenza il corrimano. Le cime roteavano nell’aria come serpenti imprigionati.

Paolo governò la barca, cercò il più possibile di cavalcare le onde di traverso per evitare danni, mentre Andrea controllava che in acqua non ci fossero ostacoli.

Per quattro ore sobbalzarono, seduti, immobili e legati al pozzetto, per quattro ore nessuno parlò, per quattro ore il mare non lasciò tregua.

Solo verso le sette del mattino giunsero dalla parte opposta dell’isola dove la baia era protetta.

Appena oltrepassarono la montagna, il mare si calmò e il vento smise di soffiare come se non ci fosse nulla di pericoloso al di fuori di quella insenatura, come se avessero immaginato tutto.

Lentamente, senza parlare, si sganciarono le cinghie, legarono le cime a un nuovo gavitello e si tolsero i giubbotti di salvataggio.

Sara abbracciò Andrea e Anna guardò i suoi bambini. Erano sereni, non avevano avuto paura, per loro era stata solo una bella avventura da raccontare ai compagni di classe al ritorno dalla vacanza.

Si sentì sollevata e invecchiata, ma solo con l’abbraccio di Paolo una lacrima di gioia le riscaldò la guancia, mentre sentiva le prime domande: «Mamma, possiamo tuffarci?»

(Per ovvi motivi pratici e psicologici non ho immagini stampate di quel giorno, sono tutte rimaste nella mia mente)