I MIEI ANIMALI DOMESTICI

Mia madre odia i gatti. Abbiamo sempre avuto solo cani.

Mi hanno raccontato che quando avevo un anno, mio padre portò a casa un cagnolino a pelo corto marrone a chiazze bianche con lunghe orecchie saltellanti. Si chiamava Pippolo. Non rimase per molto perché aveva l’abitudine di mordermi il naso.

Il secondo cane della mia infanzia lo ricordo benissimo: è stato il mio compagno di giochi fino ai quattordici anni.

Si chiamava Lilla. Era un bastardino simile a un Border Colllie ristretto in lavatrice da mia madre, con il pelo lungo bianco e nero e il musetto piccolo e dolce che ti leggeva nel cuore.

Era la mia ombra. La vestivo con i completini di quando ero neonata, le infilavo la cuffietta e il bavaglino e la adagiavo con cura nella carrozzina di legno del bambolotto che rimaneva sul letto. Lilla stava immobile, la portavo a passeggio tra il corridoio e le stanze di casa, ogni tanto mi fermavo come una vera mamma a controllare che stesse bene, le raddrizzavo il bavaglino e rimboccavo le coperte. Lei non si muoveva, assaporava con occhi dolci e rilassati le coccole, si appisolava e accettava ogni mia innocente tortura.

A quindici anni è morta di vecchiaia. La frase dei miei genitori fu: “Non prendiamo più un altro cane”.

Tempo una settimana, una vicina ci diede un trovatello. Un esemplare di raro meticcio, incrocio tra un cane da caccia e un Coker.

Questo, e lo abbiamo scoperto negli anni, significava una combinazione estenuante tra l’incessante desiderio di fuga, di gioco, di attenzioni, di caccia. Insomma, tutti i peggiori difetti per un animale ritenuto domestico. Scappava sempre, camminava in bilico lungo il muretto di casa e appena lo chiamavi saltava dalla parte opposta, rincorreva auto, trattori e camion tentando di mordere la ruota anteriore destra.

Era un temerario.

Per un breve periodo lo legammo perché non scappasse, ma, dopo i primi due minuti, il tempo di chiudere il portone, stenderti sul divano e infilarti sotto la copertina, abbaiava a intervalli di dieci secondi.

Era estenuante, ma io lo amavo alla follia.

Trascorreva pomeriggi interi seduto davanti alla mia scrivania ad ascoltarmi mentre ripetevo a voce alta le lezioni. Sapeva tutto di storia e letteratura italiana. Dormiva sopra il mio letto. Saliva sul divano. Mi seguiva alla fermata dell’autobus e abbaiava all’autista quando salivo. Si incastrava sulla sedia dietro di me, ritto sulla schiena con le zampe anteriori appoggiate alle mie spalle.

Non so come, ma Bel è morto di vecchiaia e non falciato da un’auto.

Dopo di lui ho avuto altri cani, Tina, Mosè, Kira, ma nessuno mi aveva mai portato via il cuore come Bel, fino all’arrivo di Jackie.

Il mio alter ego.

Oltre ai cani, quando ero ragazza, ho avuto anche diversi pesci rossi vinti alle Fiere e posizionati sulla scrivania del mio studio. Credo che alcuni siano morti dalla disperazione nell’ascoltare la Divina Commedia, ma uno in particolar modo era acculturato.

L’avevo chiamato Arturo. È vissuto otto anni.

Gli cambiavo l’acqua con cura, infilavo la vaschetta inclinata sotto il rubinetto aperto al massimo e lui roteava, saltava e si divertiva nella piscina di Aqualandia. Almeno credo. Non si è mai lamentato.

In primavera, alle prime giornate di sole caldo, appoggiavo la vaschetta sul davanzale e lui si crogiolava sguazzando e saltando fuori dall’acqua.

È morto suicida dopo otto anni.

Si è buttato dal davanzale del primo piano.

Io c’ero. L’ho visto.

Mi sono precipitata in giardino e in lacrime l’ho preso tra pollice e indice tentando un massaggio cardiaco, ma non c’è stato nulla da fare. L’ho gettato in water.

Ognuno di noi ha avuto animali domestici, pesci, cani, gatti, tartarughe, canarini, pappagalli, serpenti, iguane, tigri o leoni. L’impegno che ci danno, le imprecazioni che diciamo mentre puliamo i loro escrementi, la rabbia che avvertiamo quando ci mangiano o graffiano le scarpe preferite e la stanchezza che proviamo quando alle sei del mattino vogliono uscire in passeggiata, spariscono immediatamente alla prima coccola pelosa, al cinguettio solare del mattino, allo sguardo che ci rivolgono quando ci avviciniamo. Perché in fondo, abbiamo bisogno uno dell’altro…