Sono stata una bambina abbastanza sana.
Dico abbastanza perché non ho avuto le classiche malattie come varicella, morbillo o tonsillite che ti lasciavano chiusa in camera come uno zombie appestato.
Tuttavia ho sofferto in modo costante e continuativo di mal di orecchie, fino all'età di undici anni, e di tosse fino ai venti.
Scartabellando nell’album dei ricordi, ho trovato una foto in cui sono al cinema con la classe delle elementari con indosso un inguardabile cappello di lana sintetica, color topo morto, che mi copriva le orecchie come un colbacco russo della prima guerra. Sento ancora il batuffolo di cotone, infilato nell'orecchio e imbevuto di olio tiepido che mi cola lungo la guancia.
Poi è arrivata la tosse: quei colpetti fastidiosi che iniziano di notte quando sei sotto le coperte al caldo e che non ti fanno smettere se non con una boccetta intera di paracodina. In quegli anni la tosse diventava anche di tipo nervoso perché, dormendo in camera con mia sorella dal sonno leggerissimo, a ogni COFF COFF, mi sentivo insultare pesantemente. Cercavo di trattenermi fino al limite del soffocamento del tipo: lacrime agli occhi, vene del collo ingrossate, viso violaceo, per poi sfociare in un attacco ancora più rumoroso e andare a dormire sul divano. Appena cambiavo stanza, la tosse passava.
Superati questi malanni stagionali (la tosse è tutt’oggi mia compagna notturna), a venticinque anni ho avuto la varicella. La prima bolla è comparsa esattamente quindici giorni dopo essere stata alla Messa di Natale.
Nessun sintomo particolarmente fastidioso se non quello di rimanere chiusa in casa senza prendere neanche uno spiffero d'aria per quindici giorni, quasi quanto la quarantena da Covid.
Poi non ho mai avuto altre malattie.
E non sono più andata a Messa. Per precauzione.
Con due figli e un lavoro in proprio la Tachipirina per febbre e dolori generici e il Brufen per il mal di testa sono grandi compagni di vita. Al massimo qualche pomeriggio saltuario rimango a letto (possibilmente al week end quando non lavoro) per recuperare le forze.
La malattia più recente è stata il Covid-19 dal 12 al 26 Dicembre dello scorso anno. Non sono andata in ospedale.
Sintomi a parte, la lotta più difficile è stato l’isolamento.
Rimanere chiusa in una camera di 12 mq mette a dura prova la mente.
I primi giorni ho pensato: Finalmente pace e serenità, non devo cucinare e anzi mi portano da mangiare a letto. Passata la fase guardo alla televisione tutto quello che voglio io, è sopraggiunta quella rendiamo produttivo questo periodo e ho cominciato a scrivere e leggere. Poi le forze sono venute a mancare e mi sono ritrovata come Ivan Il'ič, stesa sotto le coperte a guardare il soffitto.
Successivamente ero un animale in gabbia: verso le tre di notte uscivo dalla camera, bardata con guanti e mascherina, scendevo piano le scale, aprivo il portone e camminavo a passo spedito intorno alla casa. Mi toglievo la mascherina, sentivo l’aria fredda che mi rendeva viva, mi purificava i polmoni, volevo che tutto sparisse, che magari facendomi tante docce e respirando aria buona sarei guarita prima, volevo sentire il freddo sulla pelle per capire se ero ancora viva, le gambe erano gonfie e mi facevano male, avevo il fiato corto.
Il buio in giardino mi inghiottiva, ero libera da quella stanza.
Ero sola.
Dopo dieci minuti ritornavo nella mia prigione.
Mi sembrava fosse passata un’eternità.
Dopo quattordici giorni il test è risultato negativo.
Avevo sconfitto il virus.
Di lui mi è rimasta una cosa: non chiudo più la porta della camera.
La malattia invisibile, il demone che mi rode ogni giorno, ogni mattina, appena mi alzo è l’inquietudine, la perfezione che cerco, l’inadeguatezza che provo ogni minuto e secondo della mia esistenza. Non ricordo il momento in cui ho iniziato a sentirmi così (se ci fosse stato un tampone, magari). Credo che sia un sentimento latente, come il virus dell’Herpes. Ad alcuni sfocia e ad altri no (io ce l’ho, questa sarà la mia prossima storia).
Ma sorrido.
Sorrido alla vita, alla tristezza perché non prevalga e mi divori la mente.