Quando ero bambina mi chiamavano Luciotto.
Un genitore a volte sceglie il nome del proprio figlio perché non venga troncato o storpiato da amici e conoscenti, se non altro per tutti i mesi e mesi che ha impiegato per studiarlo.
La primipara trascorre notti insonni con il pancione correndo in bagno ogni tre ore e leggendo il libro dei nomi, analizzando la storia, vita, morte e miracoli di chi si chiamava così e controllando il colore delle pietre, il carattere in base a derivazioni greche, latine, russe e australopiteche.
Il futuro papà, ignaro del proprio destino, accetta tutti i nomi proposti pur di riuscire a dormire oppure stronca fin dal nascere nomi che proprio non accetta.
- Amore?
- …
- Stai dormendo?
- …
- Amore! Dormi?!
- No, adesso non più.
- Se è femmina la potremmo chiamare Sara
- No, da noi in dialetto si dice “sara quea porta” (trad. chiudi quella porta)
- …. E se è maschio lo chiamiamo Giacomo?
- No, così poi dicono “ho le gambe che fanno Giacomo” (trad. ho le gambe che cedono)
- Pietro?
- No, poi lo chiamano Pierino come quello delle barzellette.
- Ok. Dormiamo!
- Meglio.
Fatto sta che il mio nome, che non poteva avere diminutivi, si è allungato per una strana evoluzione linguistica dalla somma di Lucia e cicciotta, data la mia forma rotonda e piena di ogni segno di morso da parte di mia madre.
Superata l'età dell’infanzia, a sette anni mi sono allungata e allo stesso tempo smagrita.
Non ero solamente magra, ma proprio secca. Le gambe e le braccia dritte e sottili, busto e spalle completamente inesistenti, del culo poi, non parliamone.
Non ricordo bene cosa preparasse mia madre a tavola, ma so per certo che merendine a casa non ne ho mai viste.
Dalla prima elementare fino alla quinta superiore sono andata a scuola con i cracker Doria, quelli senza sale, invidiando le mie compagne che portavano la Crostatina alla nutella o la Camilla del Mulino Bianco. Ricordo che qualche volta facevo la cresta alla spesa e, durante la ricreazione della quinta liceo, volavo al bar a comperarmi un panino con il salame.
Superata la fase #Crackerforever, fino a trent’anni ho mangiato di tutto senza ingrassare di neanche un etto: panini con nutella. panini senza nutella e nutella senza panini, a cucchiaiate, affondate direttamente nel vaso.
La verdura era obbligatoria, ma non necessaria per la mia dieta.
Penso che il rapporto che si ha con il cibo sia strettamente legato al rapporto che ognuno di noi ha con il proprio corpo, con la visione che ha di esso.
Fino all’età di diciotto anni non ho mai dato molta importanza al mio corpo, mi sentivo inadeguata e questo era più che sufficiente per chiudere lo sguardo in me stessa.
In seguito, confrontandomi con il mondo maschile, ma soprattutto femminile, mi sono sempre sentita grassa, avevo la convinzione di avere le gambe grosse (idea sottolineata dai commenti di mia mamma), il culo piatto, le spalle curve, i piedi ciompi (certezza evidenziata dai commenti di mia sorella) e il viso troppo rotondo (ricordando ancora il nomignolo Luciotto).
Negli anni ho studiato che il basso livello di autostima derivi fondamentalmente dal padre che da bambina non ha mai fatto complimenti alla propria figlia.
E a ripensarci oggi credo che sia vero, anche se non voglio colpevolizzare nessuno, le cose sono andate così e io ne sono il risultato.
In fin dei conti lui avrebbe voluto un maschio.
A più di quarant'anni rivedo le mie vecchie foto e scopro che ero una bella donna, magra, asciutta e sempre sorridente, ma per colpa di mio padre non lo sapevo.
Il mio pessimo rapporto con il cibo l'ho dimostrato già con le prime delusioni d'amore e nel periodo stressante che avevo con il mio ragazzo.
In pratica mangiavo e vomitavo.
Erano i primi anni della scoperta dell’anoressia e la bulimia non era ancora così conosciuta. Già allora mi dimostravo avanti con i tempi. In neanche un mese sono dimagrita di cinque chili e la notte dormivo con il secchio vicino al letto per timore di non riuscire a raggiungere il bagno.
Devo dire che i miei genitori hanno sempre avuto il sonno pesante, almeno così tento ancora oggi di giustificare la loro assenza mentre di notte correvo a vomitare in bagno.
L'unico pensiero per mia madre era che non mangiassi e, da brava insegnante elementare diplomata in magistrale dove si studia anche psicologia, mi ha accompagnata dal dottore il quale, anch'esso esperto nei malesseri giovanili, mi ha prescritto una gastroscopia.
All’oscuro delle modalità di questo esame, mi sono presentata da sola (mi chiedo solo ora: e mia madre dov’era?).
Non ero preoccupata.
Un brevissimo attimo di terrore l’ho avuto quando all’uomo che aspettava prima di me hanno chiesto se voleva del Valium prima dell’esame.
A me non l’hanno chiesto.
Avevo già abbastanza lo sguardo da svampita. …
- Sua figlia non ha niente, signora, solo bile nello stomaco. (Solo bile nello stomaco?)
Tutto risolto, mia madre non aveva trovato nulla di fisico che non funzionasse in me e quindi per lei l’argomento era chiuso.
Avrei anche potuto dimagrire e continuare a vomitare fino a morire, ma non era un problema suo perché era solo una questione psicologica. Lei e mio padre non avevano nulla da recriminarsi.
Ho sempre invidiato la loro sicurezza nel loro ruolo di genitori, soprattutto oggi che sono madre e ogni giorno mi domando se mi comporto nel modo giusto o sbagliato con i miei figli. In ogni caso, alla fine mi sono auto aiutata e ho risolto, almeno in parte, il problema bulimia.
Tutte cose che insegnano a formare il carattere, nel bene e nel male.
Oggi vivo nella lotta continua con il corpo che si evolve di giorno in giorno. Lievita, si secca, si ammoscia, poi lievita ancora e così via.
Lotto tra periodi di amore per la cucina saporita e il buon vino con periodi tra insalatine, yogurt e bresaola contenendo i danni.
Ah! Adesso i problemi psicologici li risolvo con il vino!
È molto più soddisfacente che vomitare!