Mio padre mi ha sempre insegnato che la famiglia non è nelle mura di una casa, ma dove ci sono gli affetti e il proprio cuore. Per questo suo strano tipo di coerenza, abbiamo sempre vissuto nello stesso posto e mi ha comperato un rudere da ristrutturare a cento metri da casa sua, dove sono andata a vivere appena sposata e sono tutt'ora.
Non posso scappare.
La casa dove sono nata esiste ancora, vivono entrambi i miei genitori, ma ci vado poche volte e non ci entro quasi mai. Lo dovrò fare quando saranno vecchi e avranno bisogno di me, fino ad allora mi tengo lontana. Non la sento come mia, non ho bei ricordi, anzi, non ne ho proprio. Se la casa è dove sta il cuore, posso dire che il cuore lì non l'ho mai avuto.
La mia vera casa, dove sono realmente me stessa, è quella in montagna, nel paese dei miei genitori e dove sono nati e cresciuti i nonni, bisnonni e tutti mi miei avi.
Lì ho trascorso i momenti più belli della giovinezza, con gli amici d'infanzia (quelli che rimangono sempre anche quando rivedi dopo vent'anni), dove ho passato avventure con le amiche che non dimenticherò mai, vacanze da sola lontana dai miei, con la nonna che mi aspettava alle dieci di sera con una tazza di latte caldo e pane e nutella.
La ricordo a tavola a fare il solitario: io mi sedevo di fronte, la guardavo concentrata a posizionare le carte giuste, studiavo le mosse e cercavo di imparare, lei mi spiegava come fare e io capivo la pazienza, l’attenzione, la soddisfazione della vittoria e la quieta rassegnazione se il solitario non riusciva.
Durante quelle estati ho assaporato la vita, i primi approcci a un modo che non conoscevo, curiosa di scoprire.
Mi ha insegnato a camminare nei boschi, lentamente, passi piccoli e costanti senza mai fermarsi, spalle curve e testa china con le mani dietro la schiena; mi ha insegnato a riconoscere i funghi buoni da quelli velenosi e a preparare un risotto anche con quelli meno saporiti perché messi assieme agli altri creano un gusto diverso.
Lì ho i ricordi più belli. La casa sgarrupata della montagna è quella che sogno ancora adesso la notte, non quella bella con il pavimento di marmo lucido dei miei genitori, non quella con il caminetto in pietra dove vivo ora, ma quella con la stufa a kerosene e a legna che facevano puzza e fumo, con il pavimento rivestito di linoleum a onde perché sotto c'erano tavole di legno marcio.
Ricordo che andavamo in soffitta stendere la biancheria e potevamo camminare solo in bilico sulle travi perché il pavimento era di graticcio. Le finestre non avevano vetri, ma doppi fogli di nylon che ogni anno mia mamma sostituiva e scherzosamente le chiamava finestre Panto. In camera mia (al secondo piano) avevo una vetrata "messa in sicurezza" da una specie di ringhiera fatta di un palo e una rete di ferro. La parete del bagno che dava sul corridoio era in vetro satinato e quando alla sera accendevi la luce ti vedevano anche i peli delle gambe (mia nonna si lavava al buio). L’angolo della cucina dove c’era una stufa a legna, che emanava calore da ogni crepa, era sostenuto da una trave di ferro puntellato del soffitto della stanza sotto.
Questa è la casa che mi viene in sogno.
Dove ho vissuto i momenti più belli e più brutti della mia vita, in cui mi sentivo viva e al centro del mio mondo, dove i miei genitori non esistevano perché indaffarati a rincorrersi tra loro, ma dove venivo apprezzata dagli amici veri.
Oggi l’ho ristrutturata.
È diventata ancora più mia.
Ci vado appena posso e se per molto tempo non riesco mi manca l'aria, mi manca il respiro perché non esisto se non corro lì.