31. ago, 2021

IL MIO PRIMO RICORDO LEGATO ALLA SCRITTURA

Quando frequentavo la terza media quasi tutte le mie compagne di classe avevano il diario segreto: un piccolo quaderno con la copertina rigida, appena imbottita e morbida, rosa pastello, chiuso da un delicato lucchetto con una minuscola chiave dorata. Quel lucchetto era l’unico segno di riservatezza che potevano avere a casa, dove non c’erano i telefoni, ma, non so come, i genitori scoprivano qualsiasi cosa in molto meno tempo di un’intercettazione telefonica o di un drone inviato speciale dei giorni d’oggi.

Nessuno poteva aprire il diario e i pensieri più inconfessabili rimanevano nascosti.

Solo dopo molti anni ho scoperto che quelle piccolissime chiavi misteriose e auree erano tutte uguali e che i lucchetti si aprivano anche con una molletta.

In una famiglia comunista come la mia un diario era considerato superficiale, inutile e sessista per una ragazza di tredici anni. Quaderni rosa chiusi a chiave e non condivisi con la famiglia erano l’inizio di un inesorabile capitalismo che i miei genitori temevano più della varicella (che tra l’altro non ho mai avuto).

A tredici anni sapevo più di elettronica che di cartoni animati.

Presi di nascosto, dall’ufficio di mio padre, un’agenda dell’anno passato. Aveva una copertina gommata in finta pelle blu, con un piccolo stemma dorato in basso a sinistra. Nelle prime pagine c’erano formule per il calcolo del voltaggio in proporzione ai Kilowatt, lo spessore dei cavi elettrici in base al consumo degli Ampere e alla fine gli indirizzi delle sedi della ditta Marchiol S.p.A.

Non era proprio il diario rosa che mi aspettavo, ma era quanto di più simile io potessi avere.

Ora dovevo solo risolvere il problema riservatezza.

Un trapano, una punta da sei e un lucchetto, acquistato al ferramenta del paese, avevano reso un’impersonale agenda blu il mio primo passo verso la libertà di pensiero.

Lo tenevo ben nascosto nella testiera del letto, tra ingombranti dischi in vinile, giornalini e soprammobili troppo piccoli da spolverare ogni domenica mattina, e nascondevo la chiave dentro la pancia scucita del mio peluche marrone.

Scrivevo la cronaca della giornata, a che ora tornavo da scuola, quali programmi guardavo alla televisione e cosa succedeva in classe di diverso dal solito.

A ripensarci ora, non avevo molto a dire. La mia vita non era poi così interessante, ma a quei tempi per me era sufficiente prendere in mano una penna e imprimere in un foglio i pensieri, le idee e tutto ciò che sentivo.

In quel periodo, tra i miei compagni di classe, c’era un ragazzo di nome Andrea che apparteneva al gruppo dei belli, mentre io stavo dalla parte degli inesistenti, o almeno così credevo.

Un giorno, dopo scuola, si avvicina e mi dice: - Ti accompagno a casa in bici?

Mi sono guardata intorno credendo stesse parlando con un’altra. Con le guance infuocate e gli occhi sbarrati, mentre un formicolio mi stava scendendo dalla testa fino alle gambe, ho azzardato la domanda: - E come?

- Ti siedi sul tubo - ha risposto - Sali.

Sarà stata l’aria tiepida sul mio viso, la vicinanza delle mie spalle al suo petto e l’odore dolce che emanava, ma appena arrivata a casa sono andata ad aprire il diario e ho scritto ogni piccolo dettaglio di quei dieci minuti in bicicletta.

L’ho chiuso, sono rimasta immobile quasi un minuto, l’ho riaperto e ho disegnato un grande cuore con le nostre iniziali al centro.

Questo, era il mio più grande segreto.

Dopo quel giorno Andrea e io non ci siamo quasi più rivolti la parola e nel mio diario ho raccontato di un cuore spezzato.