9. ott, 2022

LA SEDIA DONDOLO

In piedi di fronte alla finestra, Francesco guardava nel buio di un mattino d’inverno. Osservava gli aloni gialli dei lampioni che da lì a poco si sarebbero spenti, i neon tremolanti appena accesi al bar di fronte e i fanali rossi e bianchi delle auto dei vicini che uscivano dai garage e svoltavano in direzioni opposte.

Nel vetro nero della finestra vedeva specchiarsi il fumo della sigaretta che disegnava un inedito arabesco, il tavolo ritto al centro della stanza e il ripiano della cucina acciottolato di tazze, bicchieri e piatti.

Come da un anno a questa parte Francesco prendeva il taccuino nero, la penna sopra la credenza e usciva in veranda. 

Con una carezza muoveva la sedia a dondolo in legno bianco, la osservava oscillare e si accomodava sulla poltrona vicina, in pelle marrone sbiadita dal sole. Aveva quasi cinquant’anni, ma il suo volto ne dimostrava di più: i capelli sottili e neri gli arrivavano quasi alle spalle, ma in quest’ultimo anno sulle tempie erano diventati grigi. 

Tutto era cambiato da quando sua moglie era scomparsa.

Le macchine passavano frettolose. Francesco ne annotava il colore, le persone che vedeva; scriveva verso dove si dirigevano e immaginava dialoghi e incontri. 

La sedia ora ondeggiava appena.

- Credo che nuova sarebbe costata meno. Le aveva risposto.

Laura l’aveva acquistata in un negozio da poco aperto al centro commerciale. Ricordava ancora l’ampio sorriso che le aveva assottigliato i grandi occhi azzurri quando, orgogliosa di sé, appena scesa dalla sua auto blu, gli aveva chiesto: - Ti piace? 

- Mi ha fatto un prezzo stracciato, dovrò solo carteggiarla, spruzzare l’antitarlo e riverniciarla. 

Ripensando a quel momento, Francesco rimpianse di non averla aiutata a ristrutturare quel pezzo di legno. 

Ora gli si sedeva accanto.

La poltrona era comoda. Trascorreva giornate intere in veranda. Sfiorava il bracciolo della sedia a dondolo, la cullava, avvertiva il cigolio incorporeo e guardava il mondo fuori.

Era il suo taccuino numero diciotto. 

Ogni giorno si sedeva in veranda vicino alla sedia a dondolo verniciata di bianco e guardava la vita passare davanti a sé.

Francesco si avvicinò al mobile sotto la finestra, allungò la mano sul taccuino nuovo e guardò fuori. 

Vide passare una piccola jeep gialla. Il parafango anteriore era sbiadito, aveva un’ammaccatura nella portiera destra e i finestrini oscurati. 

Qualcosa in quella jeep squadrata, come quelle che disegnava da bambino, con la ruota di scorta che copriva quasi tutto il lunotto posteriore, aveva attirato la sua attenzione. 

Il mattino seguente era seduto nella sua poltrona ancora in pigiama. Non aveva bevuto il caffè, non si era acceso la sigaretta, ma era rimasto ad aspettare. 

La piccola jeep gialla passò verso le dieci. Francesco si infilò il giubbotto e corse fuori fino al cancelletto.

- Laura – sussurrò Francesco – sei tornata. 

La macchina si fermò a pochi metri, la portiera si aprì e lui vide un elegante decolté nero con il tacco alto e la suola rossa, un’affusolata gamba bianca e lucida e infine il corpo di lei, di sua moglie. Indossava un semplice abito blu, lungo fino al ginocchio, con un leggero scollo a V che faceva risaltare il collo sottile e la clavicola troppo sporgente.

- Credi davvero che io possa tornare da te? 

- La casa è pulita, i tuoi libri sono dove li hai lasciati. La tua sedia a dondolo è sempre allo stesso posto. Se vuoi la possiamo riverniciare insieme, questa volta.

Laura rimase in piedi tra la portiera aperta e l’auto. Francesco fece per aprire il cancelletto e raggiungerla, ma lei lo dissuase con fermezza: - Adesso è tardi. Sono venuta a riprendermi la mia sedia. Non c’è altro di mio in quella casa.

- Laura, torna, ti prego torna con me. Non volevo, davvero non volevo. Cambierò. 

Le automobili dei vicini erano già uscite, avevano seguito strade diverse e i viali erano deserti. Il silenzio del mattino era interrotto dal fruscio di qualche macchina che silenziosa passava sulla statale vicina e un cane in lontananza ululava alla solitudine.

Laura rimase immobile: - Te lo chiedo per favore, prendi la mia sedia a dondolo.

Francesco salì i gradini a due a due, tirò con forza la porta della veranda e prese la sedia che tanto aveva toccato e accarezzato.

- Guarda! È come l’hai lasciata tu, non l’ho rovinata, non le ho fatto nulla. Io ti amo, lo sai quanto ti amo.

Gli occhi di Laura erano freddi. Già altre volte aveva sentito quelle parole, ma poi niente cambiava. I lividi e le slogature ai polsi che doveva nascondere ai suoi genitori, le urla soffocate per non farsi sentire dai vicini, le sciarpe estive sopra il collo segnato dalle sue dita, ora erano spariti. Ora non si nascondeva più. Un anno per uscire da un incubo che la stava uccidendo, un lungo anno per trovare la forza di tornare, di guardarlo in viso senza tremare, senza temere uno schiaffo e avere il coraggio di parlare. 

Una piccola nuvola di passaggio nascose il sole limpido del mattino e velò appena il viso pallido di lei. 

Si staccò dall’auto e si avvicinò al cancelletto per prendere la sedia che aveva fatto rinascere, le aveva ridato colore e lucentezza, anche se qualche crepa del legno lasciava intravedere il peso che aveva sopportato.

- Non voglio altro da te.

Lui scese, ma a metà scala si fermò: - Perché? Perché non ti piace il divano che ho scelto per te? Perché non volevi lavare i piatti a mano? Io ti amo e nessun’altro ti amerà mai come me.

- Portami la sedia, adesso. Fammi andare via.

- Schifosa puttana, te le meritavi tutte. Eccoti la tua sedia, tieni il tuo grande lavoro di ristrutturazione.

Laura fissò la sedia sospesa sopra la testa di lui, osservò le sue nocche tese e rosse chiuse a pugno, i muscoli delle braccia si ingrossarono e gli occhi diventarono lucidi, le pupille si dilatarono e le sopracciglia si avvicinarono corrugando la pelle sopra il naso. Riconobbe quello sguardo.

La sedia a dondolo si abbassò appena sulla sua testa e poi fece un lungo arco in aria fino a oltrepassare il cancelletto e sbattere sull’asfalto. Un bracciolo si incrinò e una gamba si ruppe, lo schienale in legno si strisciò e puntini neri di ghiaia si incastrarono tra le venature.

Il cane smise di ululare e il fruscio delle auto non si sentì più. 

Laura raggiunse la sua sedia e si chinò, la raccolse con delicatezza e disse: - Aggiusterò anche questa.